Tutto ebbe inizio nel 1996.
La mia passione per lo champagne, intendo.
Per lavoro ero tornata a vivere in Italia e mi occupavo di sport. Di calcio, prevalentemente, e – senza scendere nel dettaglio – mi basti dirvi che lavoravo con la squadra italiana più titolata e che, da lì a un anno, avrebbe compiuto 100 anni. In quel contesto, ebbi la fortuna di conoscere l’illustre capitano d’impresa che il mondo ci ha sempre invidiato. Ora immaginate che, ai tempi, malgrado avessi vissuto a Parigi e fossi stata fidanzata con il figlio di un noto produttore di vini, tutto quello che ruotava intorno a qualsiasi cosa più alcolica di un succo d’ananas, era assolutamente fuori dal mio campo di interesse: super sportiva, super fit, senza un filo di trucco e men che meno un filo di tacco, ero la Doris Day de noantri, la perfetta candidata al titolo di fidanzatina d’Italia.
Ma poi quel giorno, all’improvviso, in mezzo al bailamme dei festeggiamenti, contagiata dal clima di euforia, mi son distratta un attimo e… “buono ‘sto coso, ma che è?” mi sono chiesta a voce sufficientemente alta perché il mio anfitrione mi sentisse e rispondesse “Champagne Phillipponnat… Sono lieto che le piaccia dott.ssa Romano, è il mio preferito!”.
Avrete avuto anche voi un colpo di fulmine, spero, quindi non starò qui a spiegarvi nel dettaglio il desiderio incontrollato di averne un altro sorso, e un altro ancora, e poi ancora un altro… il mio battesimo dello champagne è stato anche il momento in cui ho scoperto che ogni azione sconsiderata ha delle conseguenze e che, in questo caso, le conseguenze si chiamano sbornia.
Boris Tabakoff, professore di farmacologia all’Università del Colorado, sostiene che il dopo sbornia peggiore sia proprio quello che segue una gran bevuta di champagne, a causa dell’anidride carbonica contenuta nella bevanda e che facilita l’assorbimento dell’alcol. Da quel momento in poi, annegata – a mio avviso – negli ettolitri di champagne che hanno fatto seguito a quella prima volta, la Doris Day che era in me lasciò il passo ad un altro tipo di bionda, una con un rapporto con lo champagne più simile a quello di Maria Antonietta con il Piper-Heidsieck, per intenderci.
Erano gli anni 90 e sabrer le champagne era di gran moda, ed era sempre più frequente che, negli eventi modaioli, si sciabolasse. In quegli anni vivevo tra Roma, Parigi, Milano e Miami, e negli USA a fare tendenza erano gli artisti rap e hip hop, con i loro eccessi sgraziati agli occhi di chi, come me, veniva dal vecchio continente: “Let’s take the dough and stay real jiggy, uh-huh, And sip the Cris’ and get pissy-pissy” cantava JAY-Z citando il famoso Cristal di Louis Roederer, lo champagne preferito di quei tempi con le sue etichette e bottiglie d’oro, incredibilmente flashy.
Il mio coup de coeur per lo champagne continuava a crescere bollicina dopo bollicina, ma non sapevo che avrei dovuto aspettare ancora qualche anno perché l’innamoramento si trasformasse nel grande amore. E quel momento è arrivato una sera, a Ginevra, quando per la prima volta ho assaporato una flûte di R.D.: è stato come se non avessi mai bevuto champagne prima di quel momento.
Certo, mi si potrebbe obiettare che non è fair play confrontare un R.D. con una bottiglia entry level di qualsiasi altro champagne e non potrei non essere d’accordo, ma la mia preferenza per il Bollinger parte dalla Special Cuvée, lo champagne ordinario di tutti i giorni che non potete non trovare nel mio frigo, al Vieilles Vignes Françaises, con cui brindo nelle occasioni veramente importanti, passando per La Côte aux Enfants, che – insieme ad Amarone ed Ornellaia – sono i miei vini rossi preferiti.
Da quella sera a Ginevra è passata tanta acqua sotto i ponti e sono decine le etichette di champagne che ho avuto la fortuna di degustare. Eppure, dopo tanti anni, l’intensità dell’emozione che provo ogni volta che, tornata a casa, mi verso il mio bicchiere di bolle, è ancora la stessa di quella prima volta e di quella cena al lume di candela sorseggiando champagne. Ma questa, mes amis, è tutta un’altra storia…