Proviamo a pensare, solo per un attimo, come sarebbe oggi il mondo, o più semplicemente la nostra cantina, se nel lontano 1668 (anno più, anno meno) a Pierre Perignon non fosse stato affidato, dall’Ordine Benedettino, il compito di responsabile di cantina del monastero di Saint-Pierre d’Hautvillers, e se nei successivi cinquant’anni non avesse diviso le sue giornate tra vigne, torchi, chiostro e altare, al fine di onorare la missione affidata e, per quel tramite, glorificare la propria Fede.
L’incarico di “cellario” fu certo un grande privilegio ma anche una grande sfida per lui che, neanche trentenne, divenne il responsabile, di fatto, della stessa sopravvivenza dell’Abbazia, considerato che guerre e saccheggi avevano ridotto quella e altre abbazie, con mura in abbandono, conti in drammatico rosso e paesaggi desolati.
E qui iniziò, giorno dopo giorno, la sua opera di indottrinamento dei contadini della Marna, che parlavano la sola lingua allora comprensibile, cioè quella della “quantità”, e che solo per rispetto del suo saio non lo inforcarono quando, con l’energia della Fede, iniziò a predicare di produrre solo pinot noir, anche se il vino che ne doveva nascere era rigorosamente bianco e cristallino, e di ottenere soltanto pochi grappoli da ciascuna pianta.
Pierre non lo sapeva, ma creando uno champagne con il solo uso di uve a bacca nera, stava dando i natali al più illustre e antico Blanc de Noirs del mondo. E sebbene la finalità non fosse quella, già il nome seduce …
Certo i risultati non si fecero attendere molto, ma non deve essere stato facile per il buon Pierre dedicare la vita all’uva, cibandosi soltanto di pane e formaggio, senza mai consolarsi con una coppa di vino.
Ecco credo che dovremmo pensarci, ogni volta che rimiriamo la qualità, la finezza e la persistenza delle bollicine, ne sniffiamo la fragranza e ne gustiamo l’avvolgenza. E poco importa che se non lo avesse fatto lui lo Champagne sarebbe nato lo stesso, presto o tardi. Pierre Perignon è giustamente entrato nella leggenda e noi oggi, a distanza di oltre 300 anni, professiamo un credo incondizionato in quella fede.
Non per equilibrio di genere, ma per affinità, come non rivolgere un grato pensiero ad Hildegard Von Bingen, anche lei Benedettina, che all’inizio del XII secolo, tra le mura dell’Abbazia di St. Rupert, in Germania, studiò le proprietà del luppolo e, se da un lato si rese conto che aveva l’effetto indesiderato di indurre alla calma e perfino alla malinconia (pare che ai bambini iperattivi d’oltralpe venisse somministrato per dare tregua ai genitori), ne dovette però esaltare le proprietà di antisettico, stabilizzante e conservante.
Tant’è che la birra, prima di Hildegard, veniva prodotta senza luppolo. E se oggi la birra è quello che è, e se alcuni stili birrai prediligono un certo grado di gradevole amarezza e di aromaticità, lo dobbiamo ai migliori luppoli in circolazione e alla intuizione di Hildegard che delle sue scoperte mise a parte il mondo nel Libro delle Creature.
Se quindi una serata tra amici, oltre a quattro risate ci regala anche la curiosità di avvertire nel bicchiere (… il boccale lasciamolo alla tradizione bavarese) delicate sfumature di fiori, di erba, di fieno, di menta, di eucalipto, e al palato un prezioso sentore di resina e una schiuma alta due dita che aderisce energicamente al bicchiere, è merito, per prima, di Hildegard che, già scrittrice, poetessa, musicista, filosofa, linguista, si impose anche come naturalista e guaritrice. Non è poco, per quei tempi, e viene realmente da domandarsi cosa sarebbe stato di tutto questo genio se le mura abbaziali non l’avessero protetta dall’oscurantismo medioevale dell’epoca!
Claudia Meo